lunedì 18 febbraio 2008

I nanobatteri



Quindici anni fa il primo che li vide fu preso per visionario. E se avesse ragione?

Che cos’è che…
… forma le montagne?



Hanno parenti su Marte, vivono ovunque, anche a 3 Km di profondità; fabbricano il travertino, la dolomite ed altri minerali; ossidano i metalli causando ruggine e verderame. In simbiosi con gli uccelli fanno il guscio delle uova e, insieme alle vongole, ne fanno le conchiglie. Infine, come parassiti dell’uomo, sono all’origine dei calcoli renali, del tartaro dei denti e ora sono stati trovati persino nelle placche del colesterolo dell’infarto.
q Nanno o nano?
Però non si sa cosa siano. Il loro avvistamento risale a 15 anni fa e da allora li hanno visti in molti: prima solo i geologi, poi biochimici, ora è la volta di medici: i cardiologi. Sono l’ultima eresia della microbiologia, anzi, della nanobiologia, perché se esistono, e molti ne dubitano, sono da 100 a 1.000 volte più piccoli di un normale microbo. C’è disaccordo anche sul loro nome: i geologi li chiamano nannobatteri, i biologi dell’Università del Queensland (Australia) nanobatteri. Ecco la loro storia, che peraltro, secondo gran parte del mondo accademico, è una favola.
q Troppo piccoli
Tutto comincia a 30 Km da Roma, a Tivoli. C’era una volta (e c’è ancora) Robert Folk, docente di petrologia sedimentaria dell’University of Texas ad Austin. è una leggenda della geologia: 130 lavoratori scientifici, un librone (Petrology of sedimentary rocks) sul quale sudano i futuri geologi americani, una carriera costellata di medaglie e premi. “I monumenti di Roma sono in travertino, pietra che i Romani prendevano a Tivoli” racconta Folk. “È considerato un calcare, ma dal punto di vista petrografico è un materiale sconcertante che si forma in laghi alimentati da sorgenti calde e solforose. Insomma un’ottima scusa per venire in Italia”. E così Folk cominciò la spola tra Tivoli e Austin. Nel 1989, mise un campione sotto il microscopio elettronico a scansione (Sem) appena acquistato dal dipartimento, capace d’ingrandimenti di 75-100 mila volte, e improvvisamente vide che il travertino era popolato da minuscoli pallini. “Sulla punta di uno spillo ce ne stanno comodamente mezzo miliardo” dice Folk. Li chiamò nannobatteri e si dedicò al loro studio. Li fotografò nei calcari, nei silicati, nei metalli ossidati. Folk però venne subito attaccato o ignorato dal mondo scientifico, in particolare dai microbiologi. “Il 99% di loro pensa che sia matto” dice. Lungi dall’arrendersi, Folk rincarò la dose in una difesa pubblicata su Science: “Sono ovunque, sono le pedine più importanti della chimica che si svolge sulla superficie della terra” scrisse. Ma non aveva tutti contro. Allan Pentecost insegna geomicrobiologia al prestigioso King’s College di Londra: 100 lavori pubblicati su riviste scientifiche, due libri. A lui Folk diede un campione dei suoi nannobatteri. Pentecost li coltivò e li fece moltiplicare. “Rimuovono anidride carbonica dall’acqua e promuovono le deposizioni di travertino” confermò Pentecost.
q Arrivano i marziani
Nel 1992 Folk parlò dei nannobatteri al convegno della Geological society of America. Nell’uditorio c’era Chris Romanek, ricercatore al Johnson space center della Nasa a Houston, che, incuriosito, andò a guardare da vicino il meteorite marziano ALH 84001, da 13 mila anni sulla Terra, trovato 10 anni prima in Antartide. Nell’agosto ’96, sulle pagine di Science i ricercatori della Nasa segnalarono la presenza di minuscoli organismi fossili, del diametro compreso tra 20 e 100 nanometri (nm), anche sul meteorite e suggerirono che si trattasse di qualcosa di più di un indizio di vita su Marte. L’affermazione provocò uno scandalo nella comunità scientifica: 3 le principali obiezioni, 1. Nulla prova che si tratti di fossili di organismi viventi, 2. Nessun organismo vivente noto ha dimensioni così piccole, 3. Potrebbero essere contaminazioni terrestri.
q Che cosa significa “vita”?
Folk si liberò della terza obiezione documentando la presenza di nanobatteri su meteoriti appena arrivate sulla Terra, l’Allende e il Murchinson. Della seconda obiezione si occupò invece la Nasa, preoccupata del rischio di possibili contaminazioni legate all’esplorazione dello spazio: chiese lumi alla National academy of scieces americana. I 18 esperti convocati conclusero nel loro rapporto che un organismo definibile come vivente deve essere in grado di vivere e riprodursi autonomamente. Le dotazioni necessarie richiedono spazio e quindi non può essere più piccolo di 200 nm. Entità più piccole di questa non possono essere “vita”, almeno per come la si conosce.
Un nanometro equivale ad un milionesimo di millimetro. I nanobatteri più piccoli finora trovati non sono più grandi di 10 nm, misure adatte a virus, che per riprodursi devono affidarsi alla dotazione della cellula che infettano. Ergo, i nanobatteri non sono vita, concludono gli esperti, che si lasciano però una via d’uscita. “All’inizio della vita sulla Terra si possono immaginare forme più semplici” scrivono “con un diametro di 50 nm”. Folk obietta: “E’ frase contiene un numero dispari di virgolette. un limite arbitrario. Prima di Pasteur nessuno immaginava che esistessero i batteri, e prima del 1890 nessuno sospettava l’esistenza dei virus”.
Infine della prima obiezione si occupò, senza saperlo, Philippa Unwins, microscopista e microanalista dell’University of Queensalnd di St Lucia (Australia). Il suo lavoro consiste nell’analizzare al Sem campioni di roccia per conto di una compagnia petrolifera. Un giorno, mentre esaminava un campione d’arenaria prelevato sotto il fondo del mare al largo dell’Australia occidentale, a 3-5 Km di profondità, dove la temperatura è tra 115 e 170 °C e la pressione 2.000 volte superiore a quella del livello del mare, notò strutture filamentose simili a sfere. “Pensai si trattasse di una forma strana di illite, un minerale di calcio, e non ci feci molto caso” racconta Unwins. Ripose i campioni finché un collega l’avvertì: “Sui tuoi campioni stanno crescendi i funghi”. Funghi? Riprese i campioni: sotto i suoi occhi, quelle strane “cose” stavano crescendo finché in 2-3 settimane diventarono visibili ad occhio nudo. “Di solito i minerali non crescono” commenta Unwins “e non contengono neppure materiale genetico”. In attesa di poterli inquadrare con più precisione, pubblicò i suoi dati nel 1998 sull’American mineralogist chiamando le sferette “nanodi”.
q Nani malefici
Contemporaneamente, sulle pagine di Pnas, rivista della National Academy of Sciences americana, Olavi Kajander e Neva Ciftcioglu del dipartimento di biochimica e biotecnologia dell’Università di Kuopio in Finlandia annunciavano di aver trovato nanobatteri vivi nei calcoli, i sassolini d’apatie che si formano nei reni. Li chiamarono Nanobacterium sanguineum. Non solo. I ricercatori affermano che i sassolini si replicavano. E che contenevano Dna. Dieci anni prima Kajander, esaminando al microscopio elettronico colture cellulari che non crescevano, aveva scoperto che erano ricoperte da una misteriosa pellicola bianca di piccolissimi pallini. Coltivare questi strani microrganismi si era rilevato assai difficile; avevano un metabolismo 10 mila volte più lento del normale: per duplicarsi ci mettevano da 1 a 5 giorni. E benché la maggior parte dei batteri avesse un diametro compreso tra 200 2 500 nm, ce n’erano moltissimi tra 50 e 80.
q Contrordine
Due anni dopo John Cisar, dei National Institutes of Health, studiando la saliva spiegò che il Dna individuato dai finlandesi era una contaminazione di un normale batterio, e quello che sembrava una replicazione batterica era invece uno strano processo di crescita di cristalli.
I nanobatteri tornano nel cassetto dei sogni fino al 2002 quando Karl Stetter, microbiologo dell’Università di Regensburg in Germania, scrisse sulle pagine di Nature di aver trovato al largo dell’Islanda, a 120 metri di profondità, un nanobatterio parassita. Lo chiamò Nanoarchaeum equintas. “è un parassita di un Ignicoccus, un grande batterio. Ogni batterio ha sulla superficie da 30 a 50 nanobatteri. Hanno un diametro di 400 nm e il loro genoma è brevissimo: 500 mila basi (un batterio ne ha da 600 mila a 10 milioni). Non credevamo hai nostri occhi: non sapevamo se avevamo davanti un virus o un batterio. E’ un nuovo continente di microbi” commentò Stetter. E il biologo evoluzionista Ford Doolittle della Dalhousie University di Halifax, in Canada, aggiunge: “C’è probabilmente un mucchio di roba che non abbiamo ancora scoperto”. Ma questo studio non bastò a far riprendere la ricerca sui nanobatteri in medicina, che sembrava interrotto dallo studio di Cisar. Kajander nel frattempo aveva fondato un’azienda di biotecnologie che produce test per cercare anticorpi antinanobatteri e una terapia antibiotica per debellarli. “I suoi lavori sono considerati spazzatura, mentre Cisar viene citato come il vangelo” dice Virginia Miller, docente di fisiologia e chirurgia alla Mayo Clinic School of medicine di Rochester nel Massachusetts.
q Da Infarto?
L’ultima parola sui nanobatteri l’ha scritta lei, sull’American Journal of Physicology: riassume 4 anni di ricerca. Li ha cercati e trovati nelle calcificazioni arteriosclerotiche delle arterie (carotidi e femorali), negli aneurismi dell’aorta, nelle valvole cardiache. Li ha coltivati e moltiplicati dimostrando che contengono acido nucleico. Insomma, gli “eretici” sono sempre di più, ma gli scettici sembrano irriducibili. “è la fusione fredda della microbiologia” insiste Cisar. Folk non se ne cura. “Sto studiando il ruolo dei nanobatteri nella costruzione delle parti minerali in simbiosi con organismi viventi, come le conchiglie delle vongole, i denti di dinosauro, il guscio dell’uovo degli uccelli… il resto è ormai storia. O scandalo, se preferite” dice sornione.
Amelia Beltramini
Focus


Come combatterli, come usarli
Olavi Kajander, che per primo ha trovato il nanoparassita nei calcoli renali, ha continuato a studiarlo. Avvolto nella sua capsula minerale, cresce lentamente: raddoppia in 6 giorni; libero nel sangue in 3, e sotto attacco chimico (per esempio con antibiotici sbagliati), in 24 ore. Le malattie progrediscono quindi lentamente. I primi test per rilevarlo nelle trasfusioni e negli animali destinati all’alimentazione ci sono già. Corazzato. Grazie alla sua corazza però è molto resistente: sopravvive alla cottura, a quasi tutti i disinfettanti, ai raggi gamma e a quasi tutti gli antibiotici. Con un’eccezione: le tetracicline, che si accumulano nella capsula minerale e lo uccidono (ma in vitro, non sull’uomo).
Sembra che una terapia a base di acido etilendiamminicotetrcetico a basse dosi dissolva la capsula, consentendo alle tetracicline di agire
Restauratori. Ma i nanobatteri potrebbero anche diventare utili, per esempio nel restauro: iniettati nelle crepe di travertino dei palazzi storici potrebbero “cicatrizzarle” ed essere fermati finito il loro compito. Una Tecnica che all’Universidad de Granada (Spagna) stanno già studiando con altri batteri.

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