giovedì 21 febbraio 2008

Gottfried Wilhelm LEIBNIZ


Lipsia, 1646 -- Hannover, 1716. Studiò a Lipsia diritto e filosofia. Nel 1667 iniziò la carriera politico-diplomatica. Questa gli permise di entrare in contatto con il mondo intellettuale internazionale, con il quale tenne anche intensi scambi epistolari. Nel frattempo vagheggiò il progetto di una unificazione politica e religiosa dell'Europa. Opere principali (per lo più in francese, raramente in latino): Discorso di metafisica (titolo originale Trattato delle perfezioni di Dio, 1686, pubblicato nel 1846); Sistema nuovo della natura e della comunicazione delle sostanze, nonché dell'unione che c'è tra l'anima e il corpo (1695); Nuovi saggi sull'intelletto umano (1704, pubblicati nel 1765); Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male (1710); Princìpi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714, pubblicato nel 1718); Monadologia (originariamente senza titolo, 1714, pubblicato nel 1720).

La teodicea
Il più tipico interesse di Leibniz in campo teologico razionale riguarda però il problema del rapporto tra Dio e il male, che Leibniz affrontò nei Saggi di Teodicea, il cui tema è appunto la «giustizia» di Dio (secondo l'etimologia del termine «teodicea», coniato da Leibniz). La scrittura di quest'opera venne in parte stimolata dalla lettura del Dizionario storico e critico (1697) di Pierre Bayle, in cui, su uno sfondo di avversione alla teologia razionale e in generale alla conciliabilità di fede e ragione, veniva sostenuta una soluzione manichea: bene e male sono due princìpi aventi uguale realtà. Molti dei temi dei Saggi di Leibniz erano in realtà già anticipati in opere precedenti, spesso nati dal confronto con Descartes o Spinoza.
Punto di partenza per il problema della teodicea può essere considerato ancora una volta il principio di ragion sufficiente: esso infatti deve spiegare non solo perché il mondo esista, ma anche perché tra gli infiniti mondi possibili concepiti dall'intelletto di Dio proprio questo sia stato scelto dalla sua volontà: «supposto che alcune cose debbano esistere, è necessario poter rendere ragione perché esse debbano esistere così e non altrimenti» (Princìpi della natura e della grazia, 7 [G 6.598-606]). Dalla risposta a questa domanda discende una delle dottrine più caratteristiche di Leibniz:
Dalla perfezione suprema di Dio segue che egli, producendo l'universo, ha scelto il miglior piano possibile, in cui c'è la più grande varietà unita al massimo ordine; in cui il terreno, il luogo, il tempo, sono i meglio preparati, il maggior effetto è ottenuto con i mezzi più semplici e le creature hanno la massima potenza, conoscenza, felicità e bontà che l'universo poteva conseguire. Infatti, poiché tutti i possibili pretendono all'esistenza nell'intelletto di Dio, il risultato di tutte queste pretese dev'essere il più perfetto mondo attuale che sia possibile. Senza di ciò non si potrebbe rendere ragione di perché le cose sono andate così e non altrimenti (Princìpi della natura e della grazia, 10 [G 6.598-606]).
Più in particolare, Leibniz interpreta questa perfezione del mondo reale sulla base del principio generale della bontà dell'essere: il mondo migliore è quello che contiene più esistenza di tutti gli altri. Che poi la scelta del mondo migliore da parte di Dio non impedisca la libertà dell'uomo, si deduce dallo stesso motivo, già visto, per il quale sussiste una reale differenza tra proposizioni contingenti e necessarie (e ciò risolve il «labirinto della libertà»).
Integrazione: L'interpretazione della libertà umana in contesto teologico -- e dunque in rapporto alla grazia divina -- pone Leibniz nel vivo di un dibattito molto acceso nel suo secolo. Con la sua soluzione egli si avvicina sostanzialmente alla teoria sostenuta dal gesuita spagnolo Luís de Molina [p] (1536-1600), secondo il quale bisognava ammettere tre diversi tipi di conoscenza in Dio: oltre alla conoscenza della possibilità (scienza di intelligenza) e alla conoscenza della realtà (scienza di visione), anche la conoscenza del reale condizionale, vale a dire di ciò che avverrebbe poste certe condizioni (scientia media); ora, grazie a quest'ultima Dio ha portato all'essere un certo ordinamento di grazia, distribuendo i suoi doni in previsione della libera risposta degli uomini. Leibniz accetta questa soluzione (Saggi di teodicea, 1.40-44 [G 6.21-436]), unificando però, con la sua teoria dei mondi possibili, la scienza d'intelligenza con la scienza media. Il molinismo venne avversato soprattutto dai teologi domenicani, che sostenevano un'efficacia intrinseca della grazia di Dio. La disputa che ne nacque (controversia de auxiliis) venne portata nel 1607 davanti al papa, che si limitò però a proibire ad entrambe le parti di accusare di eresia quella avversa, ordinando ai contendenti di tornare «in patrias aut domus suas» in attesa che «Sua Sanctitas declarationem et determinationem, quae expectabatur, opportune promulgaret» (DS 1090). La dichiarazione ovviamente non arrivò mai. Fine dell'integrazione
Ma come giustificare l'evidente esistenza in questo mondo del male e del peccato? È esso compatibile con la bontà e onnipotenza di Dio?
Qualche avversario ... risponderà forse ... dicendo che il mondo sarebbe potuto essere senza il peccato e senza le sofferenze: ma io nego che allora sarebbe stato migliore. Infatti bisogna sapere che tutto è connesso in ciascuno dei mondi possibili: l'universo, qualunque esso sia, è tutto di un pezzo, come un oceano; il minimo movimento vi estende il suo effetto a qualsiasi distanza, benché questo effetto diventi meno sensibile in proporzione della distanza; di modo che Dio vi ha tutto regolato in anticipo, una volta per tutte, avendo previsto le preghiere, le buone e le cattive azioni, e tutto il resto; e ciascuna cosa ha contribuito idealmente prima della sua esistenza alla decisione che è stata presa sull'esistenza di tutte le cose. Così nulla può essere cambiato nell'universo (così come in un numero) mantenendone salva l'essenza, o, se volete, l'individualità numerica. Così, se il minimo male che accade nel mondo vi mancasse, questo non sarebbe più lo stesso mondo, che tutto contato, tutto soppesato, è stato trovato il migliore da parte del creatore che l'ha scelto.
È vero che si possono immaginare mondi possibili senza peccato e senza infelicità, e se ne potrebbero fare dei romanzi, delle utopie; ma questi stessi mondi sarebbero per altri aspetti molto inferiori al nostro nel bene. Non saprei mostrarvelo in dettaglio: come potrei infatti conoscere e rappresentarvi degli infiniti, e confrontarli assieme? Ma voi lo dovete giudicare con me ab effectu, perché Dio ha scelto questo mondo tale qual è. Sappiamo d'altronde che sovente un male causa un bene, al quale non si sarebbe affatto giunti senza questo male. ... Non è forse vero che si canta così nella veglia di Pasqua nelle Chiese del rito romano?
O certe necessarium Adae peccatum,quod Christi morte deletum est!O felix culpa, quae talem et tantummeruit habere redemptorem! (Saggi di teodicea, 1.9-10 [G 6.21-436]).
Integrazione: Questa soluzione, benché elaborata da Leibniz nel contesto del cristianesimo, differisce dalla tradizionale opinione scolastica, che sostiene sì che Dio creando questo mondo ha fatto la cosa migliore, ma da questo non deduce affatto che questo sia il miglior mondo possibile. Ma la differenza fondamentale è che Leibniz imposta la questione sulla base di un'idea di libertà umana sostanzialmente ridotta rispetto a quella tradizionale cristiana, in cui si distingue chiaramente tra l'atto creativo di Dio e la storia del mondo: questa è realmente co-affidata alla libertà dell'uomo, una libertà che può essere reale solo a prezzo di poter essere usata anche contro il progetto divino. Fine dell'integrazione
La certezza che questo è il migliore dei mondi possibili, e d'altra parte la possibilità dell'uomo di elevarsi alla conoscenza di Dio grazie alla ragione, costituiscono così i presupposti più solidi per fondare anche l'etica e indicare all'uomo il suo destino:
Tutte le menti, sia degli uomini sia dei genii [= angeli], entrando per mezzo della ragione o delle verità eterne in una specie di società con Dio, sono membri della città di Dio, cioè del più perfetto Stato, formato e governato dal più grande e dal migliore dei monarchi: in cui non c'è delitto senza castigo, né buona azione senza ricompensa proporzionata, e infine, tanta virtù e tanta felicità quante ne sono possibili; e ciò non per un deviamento della natura, come se quello che Dio preparava alle anime turbasse le leggi dei corpi, ma per l'ordine stesso delle cose naturali, in virtù dell'armonia prestabilita dall'eternità tra i regni della natura e della grazia, tra Dio come architetto e Dio come monarca; in modo che la natura conduce alla grazia, e la grazia perfeziona la natura con l'avvalersene.
Così, benché la ragione non ci possa insegnare qual è il particolare il grande avvenire, riservato alla rivelazione, noi possiamo essere assicurati da quella stessa ragione che le cose sono fatte in un modo che supera i nostri desideri. Inoltre, poiché Dio è la più perfetta e la più felice delle sostanze, e quindi la più degna d'amore, e poiché il vero amore puro consiste nello stato che fa provar piacere delle perfezioni e della felicità di ciò che si ama, un tale amore deve darci il più grande piacere di cui possiamo esser capaci, quando Dio ne è l'oggetto (Princìpi della natura e della grazia, 15-16 [G 6.598-606]).
«Regno della natura» e «regno della grazia», ovvero anche necessità e libertà, o ancora fisica ed etica, sono così quasi le due facce di una stessa realtà, di cui però è la seconda che indica all'uomo il suo destino.

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