A disposizione di tutti i coetanei, da utilizzare ad uso personale o collettivo, per scambio di incontri, gemellaggi, opinioni, suggerimenti.
mercoledì 27 febbraio 2008
LA LUTEINA: UN ANTIOSSIDANTE PER PROTEGGERE GLI OCCHI
Fa bene agli occhi e, secondo gli ultimi studi, aiuta a mantenere giovane la pelle. È la luteina, il carotenoide antiossidante contenuto nella verdura a foglia verde. Il corpo umano non produce naturalmente luteina e perciò deve assorbirla dall’alimentazione quotidiana. Una volta assorbita la luteina viene depositata in diversi organi del corpo umano, in particolare nella pelle e negli occhi.
Bloccando la produzione di radicali liberi generati dalla luce solare nociva e assorbendo la luce blu ad alta energia, può proteggere la retina dall'ossidazione, uno dei fattori di rischio riconosciuti associati allo sviluppo di alcune malattie degli occhi, come cataratta e degenerazione maculare senile. Inoltre, l'assunzione di luteina protegge anche la pelle dall'azione ossidante del tempo e del sole, preservando l'elasticità e l'idratazione.
Oggi, secondo l’indagine europea Frost & Sullivan2, commissionata da Kemin Health e condotta su 3.000 europei, dei quali 500 italiani, nel nostro Paese circa una persona su tre (35%) ha sentito parlare di questo carotenoide. Le donne sono le più informate, tanto che il 38,6% di loro conosce la luteina, contro il 30% degli uomini. In generale, due anni fa solo una persona su dieci (9,6%) sapeva della sua esistenza.
Gli effetti benefici per la pelle emergono dallo studio clinico ''Beneficial long-term effects of combined oral/topical antioxidant treatment with carotenoids lutein and zeaxanthin on human skin: A double-blinded, placebo-controlled study in humans'1 coordinato dal professor Pierfrancesco Morganti, del Dipartimento di Dermatologia, Università di Napoli, e pubblicato quest'anno sulla rivista scientifica «Skin Pharmacology and Physiology".
L'obiettivo dello studio - randomizzato, in doppio cieco, con gruppo di controllo placebo - è stato quello di valutare l'efficacia del trattamento orale, locale e la combinzione di trattamento orale e locale con luteina e zeaxantina in donne in salute con età compresa tra i 25 e 50 anni (età media 35 anni), con diversi tipi di pelle e segni di invecchiamento cutaneo precoce. Lo studio ha dimostrato che assumere ogni giorno per 12 settimane 10 mg di luteina FloraGLO® Lutein, la luteina purificata e sotto brevetto utilizzata nello studio, aumenta non solo l’attività fotoprotettiva ma anche l’idratazione, i livelli lipidici e l’elasticità cutanea, mentre diminuisce la perossidazione lipica, un marker che indica il danno cutaneo causato dall'esposizione alla luce.
In particolare, nel gruppo che assumeva luteina, l'attività fotoprotettiva sulla pelle è aumentata di 2,5 volte. Questo significa che la pelle può contrastare meglio l'azione ossidante della luce, riducendo così l'invecchiamento prematuro della pelle, considerato un fattore di benessere importante dal 72% delle donne e dal 50% circa degli uomini.
Inoltre, durante lo studio, l'elasticità della pelle è aumentata del 56% rispetto al valore iniziale, mentre l'idratazione è cresciuta del 60%. Proprio l'idratazione è considerata dal 68% degli italiani il più importante fattore di salute della pelle.
Infine, i risultati dello studio hanno rivelato un effetto positivo e significativo sui livelli lipidici cutanei, con un aumento del 46% nel gruppo di pazienti che hanno assunto un'integrazione orale di luteina.
Secondo gli studi, la dieta italiana fornisce solo 4 mg al giorno di luteina e zeaxantina. Per aumentare questi livelli di consumo, si raccomanda di assumere frutta e verdura, in particolare ortaggi a foglia verde come spinaci, cavolo o broccoli, particolarmente ricchi di luteina.
Per il 74% della popolazione italiana è fondamentale seguire una dieta equilibrata ricca di vitamine. Inoltre, 1 donna su 2 assumerebbe volentieri un integratore per la salute della propria pelle.
martedì 26 febbraio 2008
Ricostruito dagli studiosi il Dna dell’antenato di tutti i veronesi
La ricercatrice veronese Laura Longo spiega i risultati dell’analisi sui resti di un uomo di Neanderthal scoperti nei pressi di Avesa
Ricostruito dagli studiosi il Dna dell’
È il primo risultato di questo genere raggiunto in Italia. Il dossier è stato pubblicato su una rivista inglese
Un veronese di 50 mila anni fa. È di casa nostra il primo Dna estratto da un reperto fossile. È la prima volta in Italia che i ricercatori risalgono alla catena sequenziale delle nostre origini da un uomo di Neanderthal. Si tratta di una forma umana precedente alla nostra che visse nelle grotte e nei ripari del veronese intorno a 50 mila anni fa, molto diffusa in tutta Europa e nel bacino meridionale.
Il reperto analizzato proviene da riparo archeologico di Vajo Galina, vicino ad Avesa ed appartiene ad un uomo vissuto fra i 120 mila e i 24 mila anni fa. Praticamente l’altroieri. Solo da altri sei resti umani nel resto del mondo è stato possibile estrarre la catena del Dna. La ricerca è stata condotta dal professor David Caramelli docente di Antropologia all’Università di Firenze. La notizia è stata pubblicata dalla prestigiosa rivista scientifica inglese Current Biology. Sino ad oggi i neandethaliani il cui Dna era stato analizzato mostravano una notevole somiglianza tra loro, quasi a testimoniare una certa omogeneità del patrimonio genetico del gruppo.
Invece il Dna del fossile italiano risulta molto diverso da quello dei neanderthaliani tedeschi, croati e spagnoli e presenta invece maggiori affinità con il Dna estratto da reperti del vicino oriente (grotta di Mezmaiskaya in Caucaso), con il quale condivide anche due mutazioni particolarmente significative. Ma dove viveva il nostro antenato? “L’uomo di Neanderthal viveva sulle colline sopra Avesa”, risponde Laura Longo, conservatore di Preistoria al Museo di Storia Naturale di Verona, con dottorato di ricerca presso l’Università di Siena. La località è nota, Vajo Galina, riparo Franco Mezzena, dal nome dello scopritore. Subito dopo Avesa, salendo verso la Cola e Montecchio si notano sulla destra, alcune indicazioni gialle con la scritta, ripari preistorici.
Qui, molti anni fa, sono stati scoperti due siti, il riparo Mezzena e il riparo Zampieri, entrambi individuati alla fine degli anni Cinquanta. Nel dopoguerra il museo scaligero aveva condotto sistematiche campagne di scavo e molti materiali vennero portati al museo. Nel 2002 venne organizzata la mostra “I nostri antenati fossili antichi e i modelli virtuali”. La rassegna riscosse grande successo. Il Comitato scientifico internazionale valorizzò la notevole collezione di fossili che provenivano dal territorio cittadino e che risalgono da 400 mila anni fa, un classico esempio di Homo sapiens.
Segno che il territorio della città è stato abitato ininterrottamente per tutto questo arco di tempo. “Verona”, spiega Longo, “anche durante i periodi più duri delle glaciazioni conservava un discreto irradiamento solare, fatto che ha permesso all’uomo di sopravvivere”. Non solo per l’uomo, ma anche per animali e piante. Dalla mostra del 2002, vennero stabiliti molti contatti con studiosi internazionali di fossili umani. La ricerca genetica permetterebbe di supportare ciò che l’archeologia aveva già intuito sui movimenti e gli insediamenti degli uomini preistorici nel veronese.
In particolare i confronti tra i manufatti prodotti da questi nostri avi. Ciò consentirà di ampliare le attuali conoscenze sulle fasi di popolamento e insediamento nel bacino mediterraneo e nell’Italia Settentrionale. Verona conferma così il suo ruolo primario nella ricerca archeologica e non a caso i ricercatori auspicano i necessari finanziamenti per proseguire il loro importante lavoro. Perché la storia del nostro passato potrebbe riservare altre interessanti sorprese.
“Stiamo aspettando la caduta delle foglie per ripulire la sezione interessata agli scavi e prelevare altri campioni direttamente alla fonte”, promette Laura Longo. Il progetto del museo scaligero prevede nuove aggiornate analisi dei resti fossili umani e del loro contesto ambientale e cronologico, per una loro ricollocazione nel mutato panorama dell’evoluzione umana.
Danilo Castellarin
Da “L’Arena di Verona”
Tutti i siti
Molte miniere di reperti tra le colline
Oltre ad Avesa, il territorio di Verona ha una notevole serie di ripari preistorici. Fra questi ricordiamo Quinzano, la zona della Ca’ Verde vicino a Sant’Ambrogio di Valpolicella e Stallavena. La scelta dei nostri avi era sempre condizionata dalla possibilità di trovare cibo. L’uomo preistorico era infatti totalmente dipendente dagli animali, dalle prede di cui si cibava. I suoi rifugi erano quindi collocati tra la collina e le prime alture.
Lo studio del territorio veronese che ha meritato l’attenzione dei più accreditati esperti internazionali ha visto la partecipazione di antropologi molecolari (David Caramelli, del Dipartimento di Biologia Animale e Genetica Laboratori di Antropologia dell’Università di Firenze), genetisti (Guido Barbujani del Dipartimento di Biologia dell’Università di Ferrara), antropologi fisici (Silvana Condemi, Faculté de Medicine-Université de la Mediterranée, Marseille) e archeologi (Laura Longo, Conservatore di Preistoria del Museo di Storia Naturale di Verona e attualmente in forza alla sezione di Ecologia Preistorica dell’Università di Siena).
Con Paolo Giunti, Longo coordina la revisione dei siti veronesi del Paleolitico. Nel territorio della nostra provincia sono stati rinvenuti resti di Homo ereticus, di neanderthaliani, di Homo sapiens arcaico e di Homo sapiens sapiens, tutti scoperti durante le laboriose ricerche del museo. (d.ca)
Da “L’Arena di Verona”
venerdì 22 febbraio 2008
Bill Bryson
Studente alla Drake University, affascinato dal Vecchio Mondo, sospende gli studi nel 1972 per un viaggio di quattro mesi attraverso l'Europa, dove ritorna anche l'anno dopo raccogliendo il materiale che userà quasi vent'anni dopo per il libro "Una città o l'altra. Viaggio in Europa".
A metà degli anni 70, lavorando in un Ospedale Psychiatrico nel Surrey, si innamora e sposa Cynthia, un'infermiera che lo convince a terminare gli studi sospesi.
Nel 1977 tornato con la giovane moglie in America, si ferma giusto il tempo per completare gli studi e ritorna in Inghilterra dove lavora da giornalista per "The Time" e per "The Indipendent".
Nel 1995 Bill Bryson torna in America con la moglie ed i quattro figli , ma evidentemente gli manca l'Inghilterra perchè nel 2003 torna suo suoi passi con tutta la famiglia e si stabilisce a Norfolk, un paesino vicino a Wymondham .
Considerato uno dei migliori travel writer, piacevole narratore di viaggi attraverso l'Europa (1985), l'America (1989) e L'Australia, (2001) la sua fama come scrittore si accresce nel 2002 quando viene invitato in Kenia per scrivere qualcosa sui progetti realizzati da Care International, la onlus inglese che si occupa di fornire infrastrutture ai villaggi, istruzione ai bambini poveri, e sostenere l’agricoltura e la piccol(issim)a impresa con micro-crediti e formazione.
Atterrato a Nairobi, senza alcuna esperienza d’Africa, comincia un veloce viaggio di otto giorni, dal quale riporterà esperienze ed immagini a sufficienza per scrivere il suo "Diario Africano" dove racconta i suoi incontri con ogni possibile tipo di essere vivente: dagli studenti di una scuola kenyota ai serpenti velenosi, riscuotendo un grande successo.
Coltissimo ed innamorato della lingua Inglese ha scritto lo splendido saggio "Mother Tongue" e "Made in America" ottenendo, nel 2005, il titolo di Chancellor of Durham University e diverse lauree ad onorem.
Famoso per "Una Passeggiata nei Boschi" titolo originale "Neither Here Nor There" dove Bill Bryson racconta con il tono autoironico e divertito una stravagante e comica vacanza nei Monti Appalachi (3400 chilometri da Springer Mountain (Georgia) al Mount Katahdin (Maine) lungo l’omonima dorsale montuosa, attraversando quello che resta delle immense foreste che ricoprivano i territori orientali degli Stati Uniti, tra inclemenze del tempo, nugoli d'insetti ed incontri con animali selvatici, nel 2004 Bill Bryson vince il prestigioso "Aventis Prize" con "A Short History of Nearly Everything" edito in italiano da Guanda con il titolo spiritoso "Breve storia di (quasi) tutto" che conquista i lettori con un viaggio attraverso la scienza, il cosmo, il corpo umano, gli atomi e le galassie, travolgendolo con battute spiritose, aneddoti e cifre da capogiro.
giovedì 21 febbraio 2008
Gottfried Wilhelm LEIBNIZ
La teodicea
Il più tipico interesse di Leibniz in campo teologico razionale riguarda però il problema del rapporto tra Dio e il male, che Leibniz affrontò nei Saggi di Teodicea, il cui tema è appunto la «giustizia» di Dio (secondo l'etimologia del termine «teodicea», coniato da Leibniz). La scrittura di quest'opera venne in parte stimolata dalla lettura del Dizionario storico e critico (1697) di Pierre Bayle, in cui, su uno sfondo di avversione alla teologia razionale e in generale alla conciliabilità di fede e ragione, veniva sostenuta una soluzione manichea: bene e male sono due princìpi aventi uguale realtà. Molti dei temi dei Saggi di Leibniz erano in realtà già anticipati in opere precedenti, spesso nati dal confronto con Descartes o Spinoza.
Punto di partenza per il problema della teodicea può essere considerato ancora una volta il principio di ragion sufficiente: esso infatti deve spiegare non solo perché il mondo esista, ma anche perché tra gli infiniti mondi possibili concepiti dall'intelletto di Dio proprio questo sia stato scelto dalla sua volontà: «supposto che alcune cose debbano esistere, è necessario poter rendere ragione perché esse debbano esistere così e non altrimenti» (Princìpi della natura e della grazia, 7 [G 6.598-606]). Dalla risposta a questa domanda discende una delle dottrine più caratteristiche di Leibniz:
Dalla perfezione suprema di Dio segue che egli, producendo l'universo, ha scelto il miglior piano possibile, in cui c'è la più grande varietà unita al massimo ordine; in cui il terreno, il luogo, il tempo, sono i meglio preparati, il maggior effetto è ottenuto con i mezzi più semplici e le creature hanno la massima potenza, conoscenza, felicità e bontà che l'universo poteva conseguire. Infatti, poiché tutti i possibili pretendono all'esistenza nell'intelletto di Dio, il risultato di tutte queste pretese dev'essere il più perfetto mondo attuale che sia possibile. Senza di ciò non si potrebbe rendere ragione di perché le cose sono andate così e non altrimenti (Princìpi della natura e della grazia, 10 [G 6.598-606]).
Più in particolare, Leibniz interpreta questa perfezione del mondo reale sulla base del principio generale della bontà dell'essere: il mondo migliore è quello che contiene più esistenza di tutti gli altri. Che poi la scelta del mondo migliore da parte di Dio non impedisca la libertà dell'uomo, si deduce dallo stesso motivo, già visto, per il quale sussiste una reale differenza tra proposizioni contingenti e necessarie (e ciò risolve il «labirinto della libertà»).
Integrazione: L'interpretazione della libertà umana in contesto teologico -- e dunque in rapporto alla grazia divina -- pone Leibniz nel vivo di un dibattito molto acceso nel suo secolo. Con la sua soluzione egli si avvicina sostanzialmente alla teoria sostenuta dal gesuita spagnolo Luís de Molina [p] (1536-1600), secondo il quale bisognava ammettere tre diversi tipi di conoscenza in Dio: oltre alla conoscenza della possibilità (scienza di intelligenza) e alla conoscenza della realtà (scienza di visione), anche la conoscenza del reale condizionale, vale a dire di ciò che avverrebbe poste certe condizioni (scientia media); ora, grazie a quest'ultima Dio ha portato all'essere un certo ordinamento di grazia, distribuendo i suoi doni in previsione della libera risposta degli uomini. Leibniz accetta questa soluzione (Saggi di teodicea, 1.40-44 [G 6.21-436]), unificando però, con la sua teoria dei mondi possibili, la scienza d'intelligenza con la scienza media. Il molinismo venne avversato soprattutto dai teologi domenicani, che sostenevano un'efficacia intrinseca della grazia di Dio. La disputa che ne nacque (controversia de auxiliis) venne portata nel 1607 davanti al papa, che si limitò però a proibire ad entrambe le parti di accusare di eresia quella avversa, ordinando ai contendenti di tornare «in patrias aut domus suas» in attesa che «Sua Sanctitas declarationem et determinationem, quae expectabatur, opportune promulgaret» (DS 1090). La dichiarazione ovviamente non arrivò mai. Fine dell'integrazione
Ma come giustificare l'evidente esistenza in questo mondo del male e del peccato? È esso compatibile con la bontà e onnipotenza di Dio?
Qualche avversario ... risponderà forse ... dicendo che il mondo sarebbe potuto essere senza il peccato e senza le sofferenze: ma io nego che allora sarebbe stato migliore. Infatti bisogna sapere che tutto è connesso in ciascuno dei mondi possibili: l'universo, qualunque esso sia, è tutto di un pezzo, come un oceano; il minimo movimento vi estende il suo effetto a qualsiasi distanza, benché questo effetto diventi meno sensibile in proporzione della distanza; di modo che Dio vi ha tutto regolato in anticipo, una volta per tutte, avendo previsto le preghiere, le buone e le cattive azioni, e tutto il resto; e ciascuna cosa ha contribuito idealmente prima della sua esistenza alla decisione che è stata presa sull'esistenza di tutte le cose. Così nulla può essere cambiato nell'universo (così come in un numero) mantenendone salva l'essenza, o, se volete, l'individualità numerica. Così, se il minimo male che accade nel mondo vi mancasse, questo non sarebbe più lo stesso mondo, che tutto contato, tutto soppesato, è stato trovato il migliore da parte del creatore che l'ha scelto.
È vero che si possono immaginare mondi possibili senza peccato e senza infelicità, e se ne potrebbero fare dei romanzi, delle utopie; ma questi stessi mondi sarebbero per altri aspetti molto inferiori al nostro nel bene. Non saprei mostrarvelo in dettaglio: come potrei infatti conoscere e rappresentarvi degli infiniti, e confrontarli assieme? Ma voi lo dovete giudicare con me ab effectu, perché Dio ha scelto questo mondo tale qual è. Sappiamo d'altronde che sovente un male causa un bene, al quale non si sarebbe affatto giunti senza questo male. ... Non è forse vero che si canta così nella veglia di Pasqua nelle Chiese del rito romano?
O certe necessarium Adae peccatum,quod Christi morte deletum est!O felix culpa, quae talem et tantummeruit habere redemptorem! (Saggi di teodicea, 1.9-10 [G 6.21-436]).
Integrazione: Questa soluzione, benché elaborata da Leibniz nel contesto del cristianesimo, differisce dalla tradizionale opinione scolastica, che sostiene sì che Dio creando questo mondo ha fatto la cosa migliore, ma da questo non deduce affatto che questo sia il miglior mondo possibile. Ma la differenza fondamentale è che Leibniz imposta la questione sulla base di un'idea di libertà umana sostanzialmente ridotta rispetto a quella tradizionale cristiana, in cui si distingue chiaramente tra l'atto creativo di Dio e la storia del mondo: questa è realmente co-affidata alla libertà dell'uomo, una libertà che può essere reale solo a prezzo di poter essere usata anche contro il progetto divino. Fine dell'integrazione
La certezza che questo è il migliore dei mondi possibili, e d'altra parte la possibilità dell'uomo di elevarsi alla conoscenza di Dio grazie alla ragione, costituiscono così i presupposti più solidi per fondare anche l'etica e indicare all'uomo il suo destino:
Tutte le menti, sia degli uomini sia dei genii [= angeli], entrando per mezzo della ragione o delle verità eterne in una specie di società con Dio, sono membri della città di Dio, cioè del più perfetto Stato, formato e governato dal più grande e dal migliore dei monarchi: in cui non c'è delitto senza castigo, né buona azione senza ricompensa proporzionata, e infine, tanta virtù e tanta felicità quante ne sono possibili; e ciò non per un deviamento della natura, come se quello che Dio preparava alle anime turbasse le leggi dei corpi, ma per l'ordine stesso delle cose naturali, in virtù dell'armonia prestabilita dall'eternità tra i regni della natura e della grazia, tra Dio come architetto e Dio come monarca; in modo che la natura conduce alla grazia, e la grazia perfeziona la natura con l'avvalersene.
Così, benché la ragione non ci possa insegnare qual è il particolare il grande avvenire, riservato alla rivelazione, noi possiamo essere assicurati da quella stessa ragione che le cose sono fatte in un modo che supera i nostri desideri. Inoltre, poiché Dio è la più perfetta e la più felice delle sostanze, e quindi la più degna d'amore, e poiché il vero amore puro consiste nello stato che fa provar piacere delle perfezioni e della felicità di ciò che si ama, un tale amore deve darci il più grande piacere di cui possiamo esser capaci, quando Dio ne è l'oggetto (Princìpi della natura e della grazia, 15-16 [G 6.598-606]).
«Regno della natura» e «regno della grazia», ovvero anche necessità e libertà, o ancora fisica ed etica, sono così quasi le due facce di una stessa realtà, di cui però è la seconda che indica all'uomo il suo destino.
martedì 19 febbraio 2008
Il popolo Ittita
Fino agli inizi di questo secolo si conosceva pochissimo del popolo ittita. Nel corso degli anni, grazie a studiosi europei, si è giunti alla scoperta e ad una maggiore chiarezza circa questa civiltà che intorno al 1500 a.C., nascendo nell’odierna Turchia, aveva assoggettato la Mesopotamia, la Siria, il Libano e l’Egitto.
Le fonti storiche che ci raccontano di questo popolo sono pochissime. Più rilevanti sono sicuramente i documenti ittiti scoperti nelle varie spedizioni di scavi archeologici. Una prima testimonianza in proposito è data da un documento nel quale AnchesenAmun, figlia di Akhenaton e Nefertiti, faraoni d’Egitto, e vedova di Tutankamon, chiedeva al re ittita Suppiluliumas di poter sposare uno dei suoi figli. In realtà la regina egizia voleva sottrarsi dal potere del padre Eje, gran sacerdote, che aveva regnato alla sua ombra e del marito, divenuto famoso per il tesoro trovato nella sua tomba. Il re ittita, vincendo alcune titubanze, invia uno dei suoi tanti figli che viene ucciso assieme alla sua futura sposa, per ordine di Eje. Nefertiti farà in modo che venga incoronato faraone Ramsete, con cui inizierà un nuovo periodo di fioritura per l’Egitto. Questo documento testimonia l’importanza che gli ittiti avevano assunto nel quadro politico internazionale.
Gli ittiti rappresentano una continuità tra l’età della pietra (7000 a.C.) e l’età del bronzo, databile intorno al 2000 a.C.. Per capire la loro importanza nella storia, è opportuno fare una precisazione.
L’età della pietra è stata storicamente divisa in vari periodi: il paleolitico, diviso a sua volta in paleolitico inferiore e superiore, il mesolitico ed il neolitico, diviso in primo neolitico e tardo neolitico. Tra l’età della pietra e quella successiva del bronzo, da cui parte l’era storica (2000 a.C.), si colloca il calcolitico (5500 –3300 a.C.), diviso in primo, medio e tardo calcolitico. Il primo calcolitico è noto anche come età del rame. Successivamente all’età del bronzo comincia l’età del ferro (1000 a.C.). Dunque gli ittiti hanno ereditato gli usi e le tecnologie delle civiltà del neolitico per perfezionarle e diffonderle, in piena età del bronzo, nel mondo conosciuto di allora: Asia Minore e Mesopotamia.
Gli Ittiti vengono citati nella Bibbia, in diversi episodi, come popolazione residente attorno a Gerusalemme, utilizzando il termine "chittim". In uno di questi Abramo, probabilmente nativo di Ur dei Caldei, acquista dagli ittiti alcuni territori ad Hebron per seppellire sua moglie Sara. Ricordiamo, inoltre, l’episodio di Uria l’hittita , sposo di Betsabea, che fu fatto uccidere dal re d’Israele, Davide, il quale si era invaghito di quest’ultima, compiendo, così, un grave peccato agli occhi di Dio. Infine vengono menzionati nella costruzione del tempio di Salomone.
Questi episodi fanno riferimento agli ittiti in un periodo relativo alla loro fase di decadimento e di assorbimento da parte di altre culture del vicino oriente. In realtà questo popolo ha le sue origini nell’odierna Turchia, luogo ricco di montagne e poco accessibile.
Tra il 2500 a.C. ed il 2000 a.C. una popolazione indoeuropea, proveniente probabilmente dalle regioni caucasiche o dall’area europea del Danubio, migrò in Anatolia, dove, dall’età della pietra, già vivevano i protohatti, popolazioni autoctone.
Questi ultimi vivevano in città ed avevano sviluppato un buon livello di civilizzazione. La più antica città del mondo ad oggi conosciuta è stata costruita da queste popolazioni: Catal Huyuk , a sud-est di Ankara. Si tratta di una città che ha subito diversi processi di ricostruzione, partendo dal primo neolitico (8000-7000 a.C.), ottenendo, come risultato, la formazione di vari strati su una quota altimetrica di 19 metri, di cui i primi dieci sono stati datati usando il metodo del carbonio 14.
La storia di Catal Huyuk è abbastanza nota a partire da circa il 6500 a.C., per cui vi sono circa duemila anni ancora da studiare e decifrare. Il lavoro ottenuto fino ad ora è dovuto a scienziati come Mellart, Forrer, Hrozny, Winckler.
Catal Huyuk risulta essere ancora più antica di Gerico, città palestinese, anche essa composta di strati, su una quota di circa 13 metri, la cui fondazione è databile attorno al 6500 a.C..
L’antica città non aveva strade ed era composta da case ammassate l’una sull’altra, a scopo difensivo, a cui si accedeva tramite scale a pioli poggiate sui tetti. Le case potevano essere a più piani, avevano poche stanze, presentavano un’intelaiatura in legno ed un rivestimento, che veniva annualmente intonacato, costituito da mattoni, fatti di fango e paglia essiccati. Ciascuna casa poteva ospitare dalle sei alle otto persone (un nucleo familiare), vi era una cucina ed un angolo dove si accendeva il fuoco. Sotto i letti venivano conservate le ossa dei defunti ed erano collocate in relazione ai sessi: le ossa di donne sotto il letto dove dormiva una donna e quelle degli uomini sotto i letti dove giacevano uomini.
Questa ritualità implicava diversi significati religiosi, correlati con la morte. In questa fase dell’umanità nasce il processo di divinazione di ciò che fa paura all’uomo: il fulmine, l’eruzione di un vulcano, alcuni animali feroci e la morte.
I defunti venivano sottoposti ad un processo di escarnazione da parte degli avvoltoi, come ci raccontano le pitture parietali, in modo che rimanessero solo le ossa, che venivano poi conservate. Queste avevano un significato altamente simbolico, in quanto, secondo la tradizione semita, ereditata poi dal cristianesimo, rappresentano l’anima e la continuità del defunto con il regno dell’aldilà, quindi la vita eterna. Conservando le ossa del defunto in casa, i suoi cari richiamavano su di loro la sua benedizione e protezione. In alcuni casi venivano costruite appositamente delle case solide e robuste, per conservare i defunti, in modo che gli stessi venivano ingannati e credevano di essere ancora in vita. Le costruzioni meglio conservate che ci sono pervenute sono quelle legate ai defunti, proprio perché dovevano avere una funzione duratura nel tempo.
Nel corso del processo evolutivo di queste popolazioni, si osserva che la conservazione dei corpi subisce dei profondi mutamenti: si passa, infatti, dal conservare le ossa in casa, sotto i letti, al contenerle in case apposite, fino ad arrivare a custodirle fuori delle città, in quelli che saranno i prototipi dei nostri cimiteri. In ultimo, si passerà anche all’inumazione dei morti, come è stato verificato in alcune città dell’Asia Minore.
Quest’ultimo argomento è di grande importanza perché rappresenta il contrasto tra due culture. La prima, di origine semita, si basava, come già detto, sulla sacralità del corpo e delle ossa, la seconda di origine nordeuropea, relativa alla "cultura dei campi di urne" , preferiva conservare le spogli dei defunti incenerite. A seguito delle successive migrazioni, in particolare quella dei popoli del mare, tale cultura prese il sopravvento e si diffuse in tutta l’Europa.
Dalla cultura anatolica si sviluppò il concetto di positività assegnato all’est e negatività all’ovest, ripreso poi dai romani. Ad esempio, tutti i cimiteri aprivano ad ovest ed un esercito che usciva in battaglia impiegava la porta est.
Numerose erano le divinità venerate, ma la più diffusa era il toro, in richiamo ai monti del Tauro, catena montuosa che separava l’Anatolia dalla Mesopotamia, che poteva essere attraversata solo mediante il passo della Porta della Cilicia , utilizzato anche da Alessandro Magno nella sua impresa. L’adorazione di questo animale venne ereditata dalla cultura accado-sumerica. Costituiva il simbolo della fertilità e della forza ed era venerato anche a Creta, in tutta la Grecia, presso i galli, i germani ed alcune popolazioni italiche (sanniti, apuli, veneti, umbri). E’ dunque attendibile l’ipotesi che questa civiltà avesse molti rapporti con le culture dell’Egeo, in particolare con Creta e Micene. Si pensa addirittura che il palazzo di Cnosso a Creta fosse una grande necropoli, poiché ci è pervenuto ben conservato e presenta l’ingresso principale ad ovest.
Numerosi poi erano i simboli fallici impiegati, segno di fertilità e di buon auspicio. Molte le divinità femminili venerate, tra cui Geà (la Terra). Questo testimonia il cambiamento della società che da patriarcale diviene sempre più matriarcale: l’uomo, non più nomade, sviluppa un’attività sedentaria, scoprendo la pastorizia e l’allevamento, quindi perde della sua importanza a favore della donna.
I protohatti erano in grado di lavorare i metalli e la ceramica, usavano la pittura per scopi religiosi ed ornamentali, fabbricavano tessuti che venivano anche tinti, avevano un’alimentazione abbastanza varia, svolgevano attività di pastorizia, avvalendosi dell’aiuto del cane, avevano una discreta cura dei denti e dell’igiene del corpo.
Catal Huyuk venne abbandonata intorno al 5700 a.C., forse a causa di un incendio o di un’eruzione vulcanica. Venne fondata, così, Catal Huyuk Ovest, abitata per circa 700 anni e poi abbandonata a causa di un incendio. Successivamente, vennero fondate altre città, divenute ora famosi siti archeologici, in cui l’assetto urbanistico e la tipologia mostrano l’evoluzione della civiltà dei protohatti: Mersin-Tarso, Can Hasan, Beycesultan, Troia, Alaja Huyuk, Kultepe. Sarà proprio da Kultepe che comincerà la comparsa degli ittiti.
Non si sa con certezza quando questi ultimi giunsero in Anatolia. Sicuramente ciò avvenne alcuni secoli prima del 1750 a.C., anno in cui questo popolo cominciò ad assoggettare le tribù residenti. E’ probabile che nei secoli che precedono tale data, gli immigrati indoeuropei abbiano assimilato gli usi ed i costumi, nonché le tecnologie e la lingua delle popolazioni locali. Essi si inserirono talmente bene nel tessuto sociale che non imposero la propria lingua, ma adottarono quella dei protohatti. Inoltre, presero il nome di ittiti, richiamandosi a quello dei predecessori.
Il fondatore dell’impero ittita fu il re Pitkhana di Kussara , che unì alcune tribù sotto il protettorato della città di Kutelpe. Suo figlio Anittas, invece, partì per conquistare Nesa, che divenne prima capitale del regno ittita, e Hattusas, la quale fu distrutta, senza alcun apparente motivo. Nesa divenne una città abbastanza ricca ed aveva addirittura uno zoo. Cento anni dopo, Hattusas, situata nell’Anatolia centrale, ad est di Ankara, venne ricostruita e divenne la vera capitale degli ittiti.
Pianeta oscuro "tradito" da una stella
ASTRONOMIA
HA UNA MASSA PARI A MILLE VOLTE QUELLA DELLA TERRA DA CUI DISTA 255 ANNI LUCE. È STATO INDIVIDUATO GRAZIE ALLA SUA “OMBRA”
Si chiama HD 17156b il nuovo pianeta esterno al Sistema solare e il merito della sua scoperta va soprattutto ad un gruppo di ricercatori italiani.
Il pianeta, scoperto nell’ambito della missione spaziale CoRoT alla ricerca di pianeti extrasolari, dista dalla Terra 255 anni luce e si trova nella costellazione Cassiopea, ben visibile in queste settimane d’autunno.
Ciò che rende eccezionale questa scoperta sono da un lato l’intrinseca difficoltà nell’osservare l’evento, poiché esso si ripete solo ogni 21 giorni ed è estremamente debole, dall’altro lato il fatto che è avvenuta utilizzando dati raccolti con strumentazioni amatoriali.
Le osservazioni sono state condotte nella notte tra il 9 e il 10 settembre 2007 con telescopi di diametri tra 18 e 40 centimetri e si sono durate ininterrottamente oltre 18 ore. Man mano che la notte si spostava gli osservatori europei cedevano il testimone ai loro colleghi americani. Nei giorni successivi l’analisi delle immagini ha mostrato la traccia che gli astronomi inseguivano: una minuscola, quasi impercettibile diminuzione della luce della stella, generata dal pianeta che le passa davanti.
La scoperta non è però avvenuta per caso: la presenza di un corpo massiccio orbitante attorno alla stella HD 17156 era nota dalla primavera scorsa.
Il pianeta è stato scoperto con la tecnica delle velocità radiali, detta anche velocimetria, che permette di misurare le variazioni di velocità di una stella rispetto alla Terra. Nel caso di HD 17156 le misurazioni hanno mostrato che il corpo scuro aveva una massa minima pari a tre volte quella di Giove, ovvero circa mille volte la massa della Terra, un periodo orbitale, che corrisponde all’”anno”
Di questo pianeta di soli 21 giorni, e un’eccentricità enorme, pari a 0,7, un valore che nel Sistema solare ritroviamo solo nelle comete.
Da “L’Arena di Verona”
lunedì 18 febbraio 2008
I nanobatteri
Quindici anni fa il primo che li vide fu preso per visionario. E se avesse ragione?
Che cos’è che…
… forma le montagne?
Hanno parenti su Marte, vivono ovunque, anche a 3 Km di profondità; fabbricano il travertino, la dolomite ed altri minerali; ossidano i metalli causando ruggine e verderame. In simbiosi con gli uccelli fanno il guscio delle uova e, insieme alle vongole, ne fanno le conchiglie. Infine, come parassiti dell’uomo, sono all’origine dei calcoli renali, del tartaro dei denti e ora sono stati trovati persino nelle placche del colesterolo dell’infarto.
q Nanno o nano?
Però non si sa cosa siano. Il loro avvistamento risale a 15 anni fa e da allora li hanno visti in molti: prima solo i geologi, poi biochimici, ora è la volta di medici: i cardiologi. Sono l’ultima eresia della microbiologia, anzi, della nanobiologia, perché se esistono, e molti ne dubitano, sono da 100 a 1.000 volte più piccoli di un normale microbo. C’è disaccordo anche sul loro nome: i geologi li chiamano nannobatteri, i biologi dell’Università del Queensland (Australia) nanobatteri. Ecco la loro storia, che peraltro, secondo gran parte del mondo accademico, è una favola.
q Troppo piccoli
Tutto comincia a 30 Km da Roma, a Tivoli. C’era una volta (e c’è ancora) Robert Folk, docente di petrologia sedimentaria dell’University of Texas ad Austin. è una leggenda della geologia: 130 lavoratori scientifici, un librone (Petrology of sedimentary rocks) sul quale sudano i futuri geologi americani, una carriera costellata di medaglie e premi. “I monumenti di Roma sono in travertino, pietra che i Romani prendevano a Tivoli” racconta Folk. “È considerato un calcare, ma dal punto di vista petrografico è un materiale sconcertante che si forma in laghi alimentati da sorgenti calde e solforose. Insomma un’ottima scusa per venire in Italia”. E così Folk cominciò la spola tra Tivoli e Austin. Nel 1989, mise un campione sotto il microscopio elettronico a scansione (Sem) appena acquistato dal dipartimento, capace d’ingrandimenti di 75-100 mila volte, e improvvisamente vide che il travertino era popolato da minuscoli pallini. “Sulla punta di uno spillo ce ne stanno comodamente mezzo miliardo” dice Folk. Li chiamò nannobatteri e si dedicò al loro studio. Li fotografò nei calcari, nei silicati, nei metalli ossidati. Folk però venne subito attaccato o ignorato dal mondo scientifico, in particolare dai microbiologi. “Il 99% di loro pensa che sia matto” dice. Lungi dall’arrendersi, Folk rincarò la dose in una difesa pubblicata su Science: “Sono ovunque, sono le pedine più importanti della chimica che si svolge sulla superficie della terra” scrisse. Ma non aveva tutti contro. Allan Pentecost insegna geomicrobiologia al prestigioso King’s College di Londra: 100 lavori pubblicati su riviste scientifiche, due libri. A lui Folk diede un campione dei suoi nannobatteri. Pentecost li coltivò e li fece moltiplicare. “Rimuovono anidride carbonica dall’acqua e promuovono le deposizioni di travertino” confermò Pentecost.
q Arrivano i marziani
Nel 1992 Folk parlò dei nannobatteri al convegno della Geological society of America. Nell’uditorio c’era Chris Romanek, ricercatore al Johnson space center della Nasa a Houston, che, incuriosito, andò a guardare da vicino il meteorite marziano ALH 84001, da 13 mila anni sulla Terra, trovato 10 anni prima in Antartide. Nell’agosto ’96, sulle pagine di Science i ricercatori della Nasa segnalarono la presenza di minuscoli organismi fossili, del diametro compreso tra 20 e 100 nanometri (nm), anche sul meteorite e suggerirono che si trattasse di qualcosa di più di un indizio di vita su Marte. L’affermazione provocò uno scandalo nella comunità scientifica: 3 le principali obiezioni, 1. Nulla prova che si tratti di fossili di organismi viventi, 2. Nessun organismo vivente noto ha dimensioni così piccole, 3. Potrebbero essere contaminazioni terrestri.
q Che cosa significa “vita”?
Folk si liberò della terza obiezione documentando la presenza di nanobatteri su meteoriti appena arrivate sulla Terra, l’Allende e il Murchinson. Della seconda obiezione si occupò invece la Nasa, preoccupata del rischio di possibili contaminazioni legate all’esplorazione dello spazio: chiese lumi alla National academy of scieces americana. I 18 esperti convocati conclusero nel loro rapporto che un organismo definibile come vivente deve essere in grado di vivere e riprodursi autonomamente. Le dotazioni necessarie richiedono spazio e quindi non può essere più piccolo di 200 nm. Entità più piccole di questa non possono essere “vita”, almeno per come la si conosce.
Un nanometro equivale ad un milionesimo di millimetro. I nanobatteri più piccoli finora trovati non sono più grandi di 10 nm, misure adatte a virus, che per riprodursi devono affidarsi alla dotazione della cellula che infettano. Ergo, i nanobatteri non sono vita, concludono gli esperti, che si lasciano però una via d’uscita. “All’inizio della vita sulla Terra si possono immaginare forme più semplici” scrivono “con un diametro di 50 nm”. Folk obietta: “E’ frase contiene un numero dispari di virgolette. un limite arbitrario. Prima di Pasteur nessuno immaginava che esistessero i batteri, e prima del 1890 nessuno sospettava l’esistenza dei virus”.
Infine della prima obiezione si occupò, senza saperlo, Philippa Unwins, microscopista e microanalista dell’University of Queensalnd di St Lucia (Australia). Il suo lavoro consiste nell’analizzare al Sem campioni di roccia per conto di una compagnia petrolifera. Un giorno, mentre esaminava un campione d’arenaria prelevato sotto il fondo del mare al largo dell’Australia occidentale, a 3-5 Km di profondità, dove la temperatura è tra 115 e 170 °C e la pressione 2.000 volte superiore a quella del livello del mare, notò strutture filamentose simili a sfere. “Pensai si trattasse di una forma strana di illite, un minerale di calcio, e non ci feci molto caso” racconta Unwins. Ripose i campioni finché un collega l’avvertì: “Sui tuoi campioni stanno crescendi i funghi”. Funghi? Riprese i campioni: sotto i suoi occhi, quelle strane “cose” stavano crescendo finché in 2-3 settimane diventarono visibili ad occhio nudo. “Di solito i minerali non crescono” commenta Unwins “e non contengono neppure materiale genetico”. In attesa di poterli inquadrare con più precisione, pubblicò i suoi dati nel 1998 sull’American mineralogist chiamando le sferette “nanodi”.
q Nani malefici
Contemporaneamente, sulle pagine di Pnas, rivista della National Academy of Sciences americana, Olavi Kajander e Neva Ciftcioglu del dipartimento di biochimica e biotecnologia dell’Università di Kuopio in Finlandia annunciavano di aver trovato nanobatteri vivi nei calcoli, i sassolini d’apatie che si formano nei reni. Li chiamarono Nanobacterium sanguineum. Non solo. I ricercatori affermano che i sassolini si replicavano. E che contenevano Dna. Dieci anni prima Kajander, esaminando al microscopio elettronico colture cellulari che non crescevano, aveva scoperto che erano ricoperte da una misteriosa pellicola bianca di piccolissimi pallini. Coltivare questi strani microrganismi si era rilevato assai difficile; avevano un metabolismo 10 mila volte più lento del normale: per duplicarsi ci mettevano da 1 a 5 giorni. E benché la maggior parte dei batteri avesse un diametro compreso tra 200 2 500 nm, ce n’erano moltissimi tra 50 e 80.
q Contrordine
Due anni dopo John Cisar, dei National Institutes of Health, studiando la saliva spiegò che il Dna individuato dai finlandesi era una contaminazione di un normale batterio, e quello che sembrava una replicazione batterica era invece uno strano processo di crescita di cristalli.
I nanobatteri tornano nel cassetto dei sogni fino al 2002 quando Karl Stetter, microbiologo dell’Università di Regensburg in Germania, scrisse sulle pagine di Nature di aver trovato al largo dell’Islanda, a 120 metri di profondità, un nanobatterio parassita. Lo chiamò Nanoarchaeum equintas. “è un parassita di un Ignicoccus, un grande batterio. Ogni batterio ha sulla superficie da 30 a 50 nanobatteri. Hanno un diametro di 400 nm e il loro genoma è brevissimo: 500 mila basi (un batterio ne ha da 600 mila a 10 milioni). Non credevamo hai nostri occhi: non sapevamo se avevamo davanti un virus o un batterio. E’ un nuovo continente di microbi” commentò Stetter. E il biologo evoluzionista Ford Doolittle della Dalhousie University di Halifax, in Canada, aggiunge: “C’è probabilmente un mucchio di roba che non abbiamo ancora scoperto”. Ma questo studio non bastò a far riprendere la ricerca sui nanobatteri in medicina, che sembrava interrotto dallo studio di Cisar. Kajander nel frattempo aveva fondato un’azienda di biotecnologie che produce test per cercare anticorpi antinanobatteri e una terapia antibiotica per debellarli. “I suoi lavori sono considerati spazzatura, mentre Cisar viene citato come il vangelo” dice Virginia Miller, docente di fisiologia e chirurgia alla Mayo Clinic School of medicine di Rochester nel Massachusetts.
q Da Infarto?
L’ultima parola sui nanobatteri l’ha scritta lei, sull’American Journal of Physicology: riassume 4 anni di ricerca. Li ha cercati e trovati nelle calcificazioni arteriosclerotiche delle arterie (carotidi e femorali), negli aneurismi dell’aorta, nelle valvole cardiache. Li ha coltivati e moltiplicati dimostrando che contengono acido nucleico. Insomma, gli “eretici” sono sempre di più, ma gli scettici sembrano irriducibili. “è la fusione fredda della microbiologia” insiste Cisar. Folk non se ne cura. “Sto studiando il ruolo dei nanobatteri nella costruzione delle parti minerali in simbiosi con organismi viventi, come le conchiglie delle vongole, i denti di dinosauro, il guscio dell’uovo degli uccelli… il resto è ormai storia. O scandalo, se preferite” dice sornione.
Amelia Beltramini
Focus
Come combatterli, come usarli
Olavi Kajander, che per primo ha trovato il nanoparassita nei calcoli renali, ha continuato a studiarlo. Avvolto nella sua capsula minerale, cresce lentamente: raddoppia in 6 giorni; libero nel sangue in 3, e sotto attacco chimico (per esempio con antibiotici sbagliati), in 24 ore. Le malattie progrediscono quindi lentamente. I primi test per rilevarlo nelle trasfusioni e negli animali destinati all’alimentazione ci sono già. Corazzato. Grazie alla sua corazza però è molto resistente: sopravvive alla cottura, a quasi tutti i disinfettanti, ai raggi gamma e a quasi tutti gli antibiotici. Con un’eccezione: le tetracicline, che si accumulano nella capsula minerale e lo uccidono (ma in vitro, non sull’uomo).
Sembra che una terapia a base di acido etilendiamminicotetrcetico a basse dosi dissolva la capsula, consentendo alle tetracicline di agire
Restauratori. Ma i nanobatteri potrebbero anche diventare utili, per esempio nel restauro: iniettati nelle crepe di travertino dei palazzi storici potrebbero “cicatrizzarle” ed essere fermati finito il loro compito. Una Tecnica che all’Universidad de Granada (Spagna) stanno già studiando con altri batteri.
Il mistero Encelado
Pur essendo piccolissimo ha un’atmosfera.
Ed è più caldo al polo sud che all’equatore!
Le ultime scoperte su questo satellite di Saturno destano nuovi interrogativi.
Freddo e lontano com’è, da dove arriva il calore che alimenta i suoi geyser?
In questo minisatellite si celerebbe un vulcano radioattivo.
È piccolo, cristallino, molto attivo, ha un’atmosfera debolissima...e nasconde un mistero. È Encelado: una delle lune minori di Saturno, recentemente sorvolato dalla sonda Cassini e già noto come il corpo più “bianco” del sistema solare. La sua superficie, infatti, è completamente coperta di ghiaccio e riflette quasi il 100% della luce che la colpisce.
Encelado era stato fotografato negli anni ’80 dalla sonda Voyager, che aveva scoperto una superficie molto varia: alcune zone erano butterate da grandi crateri, larghi fino a 35 Km, altre erano invece liscie, come appena formate. Una possibile spiegazione è che, negli ultimi milioni di anni, il calore interno abbia di tanto in tanto fatto fondere la crosta ghiacciata cancellando i fenomeni geologici precedenti. L’attuale crosta non deve avere più di 100 milioni di anni.
Tracce di unghiate
Durante l’ultimo sorvolo di Cassini, lo scorso luglio, gli strumenti di bordo hanno rilevato che al polo sud del satellite la temperatura arriva anche a -160°C. “È come se l’Antartide fosse più caldo dell’equatore terrestre. C’è davvero qualcosa di anomalo su quel satellite” ha detto Carolyn Porco dell’Imaging Team dello Space Sience Institute di Boulder (Usa).
Poiché non è possibile che il riscaldamento sia legato a una diversa insolazione tra il polo sud ed il resto della piccola luna, il calore deve arrivare dall’interno.
Le immagini scattate da Cassini mostrano inoltre che al polo sud il ghiaccio è segnato da gigantesche “unghiate”. Queste tracce non avrebbero più di 1.000 anni: pochissimo in termini astronomici. Sia chiaro: le “unghiate” non sono state inferte da un supergatto cosmico. Sono infatti fratture lunghe circa 130 Km e larghe 40 Km, e da esse fuoriescono geyser che emettono vapore acqueo.
Un mare di vapore
Da qualche parte in profondità, c’è quindi una stufa naturale che fonde, almeno parzialmente, il ghiaccio superficiale. Ma dov’è la sorgente di calore? E che cos’è?
“È questo il mistero” commenta Porco. “Anche perché il satellite più vicino a Encelado, Mimas, simile anche come dimensioni, è completamente morto”.
Bonnie Buratti, che fa parte del gruppo di ricercatori che segue Cassini, ha tuttavia avanzato una possibile spiegazione: la presenza di un mantello di minerali radioattivi nell’area sotto il polo sud.
Poi ci penserebbe la forza di gravità di Saturno e di altri satelliti maggiori ad attrarre il vapore in superficie, come per un effetto marea, producendo con l’andar dei secoli le fratture che noi vediamo come “unghiate”. A contatto con l’esterno, poi, il vapore ghiaccia in particelle che sono state analizzate dagli scienziati. “Le analisi dicono che vi è un continuo apporto di cristalli di ghiaccio da sotto la superficie di Encelado, tant’è che i più recenti hanno appena qualche anno” spiega Buratti.
Sarebbe proprio questo vapore a fornire a Encelado la sua atmosfera, miliardi di volte più sottile di quella terrestre. La debolissima gravità del satellite, infatti, non potrebbe trattenere alcun tipo di atmosfera. Uno strumento di Cassini, lo spettrometro, ha scoperto che l’atmosfera è composta al 65% di vapore acqueo, al 20% di idrogeno e per il resto di anidride carbonica e azoto. Proprio questo ha condotto a un’altra sorprendente conclusione: gli stessi geyser hanno dato vita anche all’anello di Saturno, chiamato “anello E”, al cui interno ruota Encelado.
Se queste ipotesi venissero confermate dal prossimo sorvolo di Cassini (nel 2008), Encelado risulterebbe il quarto oggetto del sistema solare ad avere vulcani attivi, dopo la Terra, un satellite di Giove, Io, e Tritone, luna di Nettuno.
Luigi Bignami
Focus
domenica 17 febbraio 2008
I bambini di Neanderthal
SCOPERTE
I bambini di Neanderthal crescevano più in fretta ed a 15 anni erano già adulti
Roma. L’età del gioco durava pochissimo per i Neanderthaliani: la loro infanzia era molto breve, ed erano sicuramente bambini precoci, tanto da diventare adulti già a 15 anni. Lo ha scoperto, analizzando le caratteristiche dei denti degli uomini di Neanderthal, uno studio pubblicato su Nature. La ricerca, coordinata da Fernando Ramirez Rozzi e José Maria Bermudez de Castro dell’università dell’Illinois a Chicago, è la più vasta mai condotta, e ha messo a confronto centinaia di denti fossili appartenenti all’uomo di Neanderthal e all’uomo moderno.
Ebbene: l’uomo di Neanderthal aveva un metabolismo accelerato e mangiava più rispetto all’uomo moderno, come si evince dai suoi denti e dall’ampiezza della sua scatola cranica: queste differenze rendono inoltre inverosimile la teoria secondo cui l’uomo di Neandethal ha avuto qualche rapporto con la nostra specie. Anche questo lavoro, quindi, conferma che quella dei Neanderthaliani che trentamila anni fa popolavano l’Europa sono stati una specie distinta dalla nostra con cui, probabilmente proprio per queste incompatibilità fisiologiche, non si è mai imparentata.
Dall’esame dello smalto e della corona dentaria, rivela Rozzi, è emerso che i denti dei Neanderthaliani crescevano in fretta e, molto probabilmente, insieme al resto del corpo. Ci sono poi molti indizi che fanno ritenere che la sua vita dovesse avere una durata molto breve.
Tratto da “L’Arena il giornale di Verona”
Siamo figli di tante specie
Proveniamo tutti dall’Africa? No: secondo le ultime scoperte
Siamo figli di tante specie
I reperti di Homo sapiens sono troppo diversi per discendere da un unico ceppo africano: gli ominidi si sono sviluppati in modo autonomo in Africa, Europa e Asia.
Con molte coincidenze...
Nuovi fossili e prove del Dna: vacilla la teoria della provenienza africana dell’Homo sapiens
Scoperti in Georgia gli ominidi europei più antichi: erano della specie Homo ergaster. 1,7 milioni di anni fa si procuravano la carne dalle carcasse degli animali, in competizione con le iene. Trovati in Romania i più vecchi rappresentanti dell’uomo moderno (Homo sapiens sapiens): mostrano segni di discendenza dall’uomo di Neanderthal. Infine, estratto il Dna dai fossili dei primi indigeni australiani: la prova che l’evoluzione umana avvenne in luoghi distanti fra loro.
Popolo “eletto”?
Queste tre recenti scoperte scientifiche minano la teoria – tuttora molto diffusa – secondo cui l’uomo moderno proviene dall’Africa. Questa teoria definita ”out of Africa”, dice che tutti gli uomini moderni provengono da un’unica piens, comparsa in Africa circa 150 mila anni fa, come forma di evoluzione dell’Homo ergaster. Quest’ultimo era anche uscito dall’Africa, più di un milione di anni fa, dando vita solo a forme di ominidi che si estinsero e vennero sostituite dall’intraprendente Homo sapiens sapiens di ben più recente origine africana. Uno scenario, insomma, molto simile ad una migrazione “biblica” di un popolo “eletto” di ominidi che prese il posto di altri. Con una curiosa coincidenza: tra le forme più evolute di Homo sapiens sapiens si contano anche fossili trovati nell’attuale Israele, in località come Oafzeh e Skull.
Le ultime scoperte, però, sembrano dare ragione all’altra ipotesi sulle origini dell’uomo moderno, quella “multiregionale”: l’Homo ergaster sarebbe uscito dall’Africa molto prima di un milione di anni fa ( e il ritrovamento della Georgia ne è una prova) dando origine a forme locali più evolute. L’uomo moderno nacque così in modo separato ed indipendente in Africa, Europa, Asia centro-orientale e Sud-est asiatico. I 4, forse 5 tipi, in certa misura si mescolarono anche fra loro, ma restano tracce fisiche e genetiche della loro diversità. Se un antenato comune vi fu, questo non risalirebbe a 150 mila anni fa (come ritengono i sostenitori dell’”out of Africa”), ma a quasi due milioni di anni or sono, sotto forma di Homo ergaster. Una delle più importanti conferme di questa ricostruzione multiregionale è stata la recente ridatazione (con un nuovo metodo basato sul decadimento dell’uranio nel tempo) dell’Homo sapiens di Liujiang, nella Cina del sud.
Mutazione originaria
Il precedente metodo, basato sul carbonio 14, lo assegnava a 30 mila anni fa. Ora si è stabilito che ne ha almeno 70 mila, forse anche 130 mila. E questo rende più debole la teoria “out of Africa”. Ipotesi che ha come pilastro uno studio apparso nel 2001 su Science in cui, esaminando il cromosoma Y (quello presente solo nei maschi) di 163 popolazioni (sulla base di 12 mila campioni), dall’Africa all’Iran, alla Nuova Guinea, aveva messo in luce che le tre diverse mutazioni riscontrate derivano tutte da una più antica, originale, avvenuta in Africa. Quindi era logico supporre che l’umanità esistente venisse tutta da lì.
Orologio molecolare
Circa 15 anni fa, utilizzando il Dna mitocondriale (quello presente nei “motori” delle cellule umane), i ricercatori misero a punto una sorta di “orologio molecolare” che collocava la discendenza africana a circa 150 mila anni fa (calcolo confermato dal recente ritrovamento in Etiopia, a Herto, di fossili umani dai tratti moderni dell’età di 160 mila anni). Da 90 mila a 35 mila anni fa, come calcolato dall’orologio molecolare, i sapiens sapiens si sarebbero sparsi per il mondo, senza peraltro incrociarsi con gli altri ominidi in via di estinzione, ma sostituendoli. “Questo scenario non appare più corretto perché abbiamo estratto ed amplificato il Dna di antichi indigeni australiani che esclude la loro provenienza dall’Africa” dice Alan Thorne, antropologo dell’Australian National University.
I ricercatori australiani sono riusciti ad estrarre Dna mitocondriale dall’uomo di Mungo (età stimata: 60 mila anni) e da altri reperti locali. Hanno fatto un confronto con sequenze genetiche africane e riscontrato la presenza di mutazioni autonome, il segnale di una evoluzione separata, locale. Per Chris Stringer, del Museo di storia naturale di Londra e fondatore dell’ipotesi “out of Africa”, estrarre Dna da reperti così antichi potrebbe comportare “contaminazioni”. Occorre ripetere l’esperimento per convalidarlo. Inoltre, le mutazioni possono essere esistite anche nell’originaria popolazione africana, per poi scomparire.
L’esame anatomico dei fossili sembra però contraddirlo. Milford Wolpoff, del Dipartimento di antropologia dell’Università del Michigan, ha pubblicato sempre su Science un confronto tra sapiens europei, asiatici, australiani e africani. Risultato: esistono almeno tre origini indipendenti, non si può parlare quindi di una provenienza comune africana. In particolare, l’ominide australiano dei Willandra lakes avrebbe come diretto progenitore l’Homo erectus di Giava. Le forme più recenti di questo ominide di Giava risalgono a circa 18 mila anni fa, e possono anche essere considerate Homo sapiens sapiens. Si potrebbe perciò parlare di evoluzione sul luogo.
Nani per vivere
Un’altra scoperta a favore dell’ipotesi multiregionale è il ritrovamento nell’isola di Flores, 300 miglia ad est di Giava, di una popolazione fossile di sapien sapiens pigmei. È probabile che venissero da Giava e che la statura sia poi diminuita come spesso avviene per gli animali nelle piccole isole. “I test genetici rimangono un metodo indiretto per ricostruire le origini dell’uomo” spiega il paleontologo cinese Wang Wei “mentre le datazioni e il confronto delle forme sono metodi diretti. L’ominide cinese più antico, trovato a Yanmou, ha 1,7 milioni di anni. E la nostra nuova datazione, replicata nel laboratorio australiano della Queens University, che sposta a circa 100 mila anni l’età dell’uomo di Liujiang, rende ormai difficile sostenere l’ipotesi “out of Africa”. Tutti i fossili umani cinesi hanno una morfologia comune: denti incisivi a paletta, fosse orbitali rettangolari e faccia piatta, ad indicare un’evoluzione continua in Cina da 1,7 milioni di anni or sono fino ai cinesi moderni”.
Se le cose stanno così, l’umanità ha avuto almeno 3 origini (Africa, Europa e Cina), molto probabilmente 4 (contando la discendenza australiana dall’uomo di Giava) forse 5 (con l’antico uomo di Dmanisi in Asia occidentale). L’evoluzione quindi non premiò una sola genìa, ma diversi gruppi di ominidi. Senza che contassero specie, sottospecie o razze, scelsero in modo indipendente la cooperazione e il pensiero astratto come stile di vita: agivano in gruppo per procurarsi il cibo, dipinsero figure sulle rocce, modellarono oggetti di terracotta, cercarono gli spiriti nella natura e tentarono di programmare il loro destino.
Franco Capone
Focus
domenica 10 febbraio 2008
Maestro
Ho fatto come mi hai detto
maestro
getto nel fuoco le vesti proibite
e le ansie oziose di una vita
riccamente inutile
Cammino per miliardi di passi
uno dopo l’altro
senza pensare né al dopo
né ad altro
Mangio le radici da uomo
di un tempo
dormendo in granai
di onesti coloni
Così mi hai ordinato
maestro
di esserci sempre
in tutta la strada percorsa o
dentro parole sapienti
che avran da venire
Insomma di essere fiero
tra quelli che han perso
ragione e controllo
Manca di un giorno il mio
calendario di stelle
ma so che la Stella
quando sarà
l’avremo per sempre…
e più grande di Tutto
Così hai suggerito
maestro
benché dal buco del mondo
in cui vivo sia triste e violento
il luccicare di stelle diverse
di astri arroganti e mostruosi
Ed io forse perderò il nord
ma intanto cammino
E intanto cammino
da “ Cronache da un ascoltatore orbitale”
Editore Montedit
Diego Pavan
(figlio del mio carissimo amico Loris)
sabato 9 febbraio 2008
Il Monte Baldo
È un vero e proprio regno di specie uniche.
Il Monte Baldo, che come tutte le Prealpi ha una storia antica, è un vero e proprio regno di specie uniche. Sono almeno trenta quelle catalogate finora e tenute sempre sotto stretta osservazione, tra cui farfalle (lepidotteri), cavallette, millepiedi e coleotteri.
Nel corso dei millenni questo monte è passato attraverso diverse fasi geologiche e climatiche, fasi glaciali e interglaciali, cioè periodi molto freddi e periodi caldi, che ne hanno influenzato e modellato l’ambiente, rendendolo unico proprio per la varietà che lo distingue.
In poche centinaia di metri di altitudine si passa infatti da un ambiente di tipo mediterraneo ad un am-biente di tipo alpino sulle vette, passando così da oliveti a boschi di faggi e conifere. Ne deriva altrettanta varietà nella fauna che lo popola che è tanto più caratteristica perché endemica, cioè fatta di specie animali che vivono solo su questa montagna e non si trovano in alcun altro luogo. Sono tutti catalogati e schedati al Museo civico di storia naturale di Verona, dove molti di essi sono anche esposti e quindi visibili al pubblico.
“Durante le ultime glaciazioni, facciamo quindi riferimento particolare all’ultima avvenuta nel Quaternario circa 10-15mila anni fa, il Baldo è rimasto isolato, proprio come un’isola incastrata tra i ghiacciai del Garda e della Valdadige”, semplifica Leonardo Latella, conservatore zoologo al Museo Civico.
“Circondati dai ghiacciai, gli animali che vi abitavano non hanno più avuto contatti con quelli della Lessinia e del Trentino, ma hanno continuato a riprodursi adattandosi alle diverse temperature divenendo quindi specie a tutti gli effetti differenti. Alcuni sono sopravvissuti e hanno trovato rifugio nelle grotte, ambiente che nei periodi di alternanza climatica offrono un rifugio idoneo in quanto più caldi, altri sono rimasti all’esterno e hanno però dovuto adattarsi ai mutamenti del clima. In base alle ricerche effettuate sinora al nostro museo, che sono iniziate negli anni Sessanta e che continuamente approfondiamo, le specie endemiche sono circa trenta. Ci sono lepidotteri, tra cui in particolare due farfalle, la Glacies baldensis, che vive solo sul Monte Baldo, e la Erebia pluto burmanni, dal nome del lepidotterologo austriaco di Insbruck, Burmann, che, come molti entomologi, si appassionò alla fauna del Baldo. Fu lui a scoprire questa nuova entità che vive a quote elevate, tra i 2000 e 2500 metri di quota, tra i ghiaioni più impervi”.
Poi ci sono vari coleotteri: “Una quindicina di piccoli insetti che vivono sul suolo o sotto i sassi nelle zone più elevate del Baldo”. E le cavallette “che, pur abitando ad alta quota, dove sono rimaste isolate nel periodo glaciale, amano stare nei prati soleggiati. Tra di esse sono specie rare come la Pseudoprumna baldensis e la Chorthopodisma cobelli”.
Quindi ecco i tanti animali cavernicoli, che “come tutte le specie che stanno in grotta, sono generalmente ciechi e depigmentati con antenne e zampe allungate che permettono loro di percepire l’ambiente circostante che non vedono. Tra questi c’è il lepidottero predatore, Orotrechus vicentinus martinelii che si trova in alcune grotte del Baldo, come la Tanella a Torri del Benàco. Poi ci sono coleotteri che si nutrono di sostanze organiche in decomposizione, come la Boldoria baldensis, la quali si ciba di resti animali e vegetali. Infine i millepiedi, come la Osellasoma caoduròi, che è un’altra specie probabilmente endemica segnalata altrove una sola volta, in un’unica località del bergamasco. Anch’essa è legata ad ambienti freddi, glaciali, e, sempre per sopravivere ai mutamenti della temperatura trovò rifugio in grotta”.
Sembra strano un simile interesse per questo piccolo mondo antichissimo, ma ha un senso. Il senso della ricerca, che in questo caso tenta di capire il senso della vita, anzi della biodiversità, che sul Baldo sembra essere veramente di casa. (b.b.)
venerdì 8 febbraio 2008
SPORT PER TUTTI
TANTE ATTIVITÀ MA SENZA ECCEDERE
Praticare attività motoria è salutare ad ogni età: rigenera lo spirito e contrasta gli acciacchi. Gli sport completi come il nuoto sono i più indicati soprattutto per le persone anziane, perché mettono in funzione tutta la muscolatura e non hanno controindicazioni, l’importante è non eccedere troppo con l’attività fisica altrimenti si rischia di ottenere l’effetto contrario. Alcuni centri natatori, oltre ai classici corsi di nuoto, offrono anche lezioni di acquagym o di altre attività fisiche, come per esempio, il free fitness, che vengono eseguite sempre in acqua. In alternativa al nuoto le palestre offrono diversi corsi di ginnastica dolce, aerobica e in alcuni casi anche lezioni di bioenergetica, ovvero un’attività di movimento rivolta a chiunque voglia migliorare il proprio benessere fisico e psicologico: questa particolare ginnastica offre la possibilità di ridurre lo stress e di imparare a rilassarsi. Per chi, invece, preferisce gli sport all’aria aperta, questo può essere il periodo delle camminate in montagna con le “ciaspole”, racchette che permettono di spostarsi agevolmente a piedi sulla neve fresca.
Da “L’Arena il giornale di Verona” 31 genn. 2008
SCIENZE: Venere e Terra, nati “gemelli”
Venere e Terra, nati “gemelli” ora così diversi.
È stato lo spettrometro italiano Virtis a penetrare la densissima atmosfera che nasconde il paesaggio
Venere assomiglia alla Terra molto più di quanto si pensasse, a dispetto delle estreme differenze fisiche e climatiche esistenti fra i due pianeti. È quanto emerge da una serie di ricerche, tra queste anche una italiana dell’Inaf-Iasf di Roma, pubblicate ieri su “Nature”, nelle quali viene presentato quanto risulta dalle analisi dei dati raccolti dalla sonda europea Venus Express durante il suo primo anno di missione. Lanciata nel novembre 2005 Venus Express è la prima missione, in 25 anni, ad essere dedicata allo studio dell’atmosfera venusiana e del plasma. È stato un occhio italiano, lo spettrometro Virtis, a penetrare la densissima atmosfera del pianeta per scoprire un paesaggio estremo, con temperature al suolo fino a 457 gradi, una pressione 90 volte maggiore di quella terrestre, venti che soffiano a 400 chilometri orari, luce fluorescente ad alta quota e un doppio vortice che si estende per 3.000 chilometri nel polo Sud.
I dati raccolti dalla sonda ci danno l’immagine attuale del pianeta, ma potenzialmente possono rivelare come si è evoluto Venere, in milioni di anni, fino ad oggi, con le sue estreme condizioni fisiche ed atmosferiche. Gli scienziati definiscono Venere e la Terra “pianeti gemelli”, forse perché una volta erano simili, fino a quando si sono evolutivamente e drammaticamente discostati l’uno dall’altro.
Haekan Svedhem e colleghi, Esa/Estec, Noordwijk, Olanda, autore di una delle ricerche, entra nel merito delle scoperte e insieme agli altri ricercatori-autori spera che i processi fisici ed atmosferici svelati da Venus Express possano aiutare a capire la diversa evoluzione dei due pianeti indagando sull’interazione dell’atmosfera con l’ambiente spaziale circostante, studiando in che modo le particelle fuggono dall’atmosfera vesuviana, hanno scoperto che le particelle dominanti sono ioni di ossigeno, elio e idrogeno. Questo potrebbe aiutare a spiegare come Venere a perso la sua acqua che è “volata” nello spazio. Infatti, Venere non avendo un campo magnetico interno, il vento solare, un “torrente” di particelle cariche proveniente dal Sole, può interagire direttamente con l’atmosfera.
Il vento solare è completamente deflesso, anche quando il sole è al suo minimo di attività, e, quindi, nell’atmosfera entra poco vento solare; è stata evidenziata definitivamente l’esistenza di lampi su Venere e conferma la presenza di onde elettromagnetiche che viaggiano nella ionosfera, la parte più eterna dell’atmosfera. Osservazioni precedenti avevano già rivelato la presenza di un vortice di nubi in rotazione.
La ricerca ha focalizzato l’attenzione sulla presenza di un vortice simile al Polo sud venusiano, anch’esso rotante ma leggermente più veloce e sono state studiate le dinamiche degli strati più alti delle nuvole; la regione meridionale polare è molto variabile, con cambiamenti repentini e drammatici dovuti all’immissione di ossido di zolfo dal basso. I picchi di emissione giorno e notte-giorno dei livelli di ossigeno e anidride carbonica nell’atmosfera superiore di Venere, la regione di transizione tra l’atmosfera più bassa e lo spazio. È stato inoltre scoperto uno strato caldo nell’atmosfera, a 90-120 chilometri dalla superficie nel lato notte del pianeta, una regione che si pensava fosse così fredda che era stata chiamata “criosfera”.
Da “L’Arena” di venerdì 30 novembre 2007
giovedì 7 febbraio 2008
Fossili di 220 milioni di anni
Fossili di 220 milioni di anni
In gocce d’ambra microrganismi simili alle specie oggi esistenti
Sono i microrganismi fossili più vecchi mai trovati finora all’interno di gocce di ambra, quelli scoperti in Italia, a Cortina d’Ampezzo sulle Dolomiti: hanno 220 milioni di anni, quindi ri-salgono all’epoca in cui si stavano e-volvendo i primi dinosauri, secondo quanto riferisce il paleontologo Ale-xander Schmidt in una intervista al quotidiano Berliner Zeitung.
Schmitd ha raccontato al gior-nale berlinese la scoperta finora senza precedenti compiuta da studiosi dell’università di Padova e appena presentata sulla rivista scientifica an-glosassone Nature da Eugenio Ragaz-zi, Olimpia Coppellotti e Guido Roghi dell’università di Padova in collabora-zione appunto con Alexander R. Schmitd dell’università di Berlino.
“In milioni di anni non ci sono stati cambiamenti” racconta al giorna-le l’esperto tedesco, secondo il quale i microrganismi conservati in gocce di ambra sono simili in maniera stupefa-cente alle specie ancora oggi esisten-ti.
I paleontologi italiani, secondo quanto ha raccontato Schmitd, erano andati a raccogliere sulle pareti sco-scese delle Dolomiti campioni di strati geologici emersi che si ritiene risalga-no al periodo triassico, un’era geolo-gica compresa tra 250 e 200 milioni di anni fa. Essi hanno preso prove di ter-reno ogni dieci centimetri, ma solo in laboratorio hanno scoperto che si trattava di ambra, cioè di resina fossi-lizzata, uscita sulla corteccia esterna degli alberi, caduta sul terreno dopo essersi indurita, sepolta dai sedimenti e dagli sconvolgimenti del terreno per milioni di anni. “Il reticolato rimasto sulla superficie esterna permette di capire che l’indurimento è avvenuto sulla corteccia” ha detto lo scienziato.
A occhio nudo, sulle pareti do-lomitiche, le gocce di ambra non si ri-conoscono, racconta Schmidt che ad ottobre scorso è andato sul posto a vedere dal vivo questa meraviglia del-la natura.
In laboratorio è stato invece possibile appurare che le gocce di ambra, grandi al massimo cinque mil-limetri, al loro interno hanno catturato e perfettamente conservato i piccoli campioni del microcosmo di 220 mi-lioni di anni prima della comparsa dell’umanità, che si trovava in quel momento sulla corteccia molto umida.
La datazione dell’ambra è avve-nuta grazie hai fossili del periodo triassico, trovati nel materiale roccio-so sopra e sotto i campioni raccolti. Sopratutto fossili di ammoniti (mollu-schi cefalopodi marini da tempo estin-ti) e polline, ha detto Schmitd.
Le gocce di ambra delle dolomiti contengono microrganismi simili a quelli che ai giorni nostri si riscontra-no in batteri, alghe, protozoi e funghi. Un mondo fossilizzato che è riuscito a sopravvivere a tutti gli sconvolgimenti della Terra, una sorte non toccata ai dinosauri che all’epoca avevano appe-na cominciato la loro evoluzione e poi invece si sono estinti 65 milioni di an-ni fa.
Da “L’Arena di Verona” 3 marzo 2007
mercoledì 6 febbraio 2008
L'abbraccio
Fino a oggi ti rivivo come il primo abbraccio che mi hai dato.
Un abbraccio pieno di amore.
Il ricordo di quel calore mi accompagna: è calore di madre.
Tanto si è scritto sul sentimento della mamma e del figlio.
Io ho parole semplici, ma vere.
Vere come il profumo dei fiori di campo,
vere come il sorriso dell’amico,
vere come il pane che nutre.
Ti voglio bene: questo è vero
Mia culla, mio abbraccio, mia casa
Accolgo con gioia il dono che mi hai fatto della vita,
accogli con gioia questa mia vita.
Strana, diversa, difficile, ma bella
Perché tu mi abbracci come gli altri,
mi hai dato le ali, mi hai lasciato volare,
alto nel cielo il mio essere uomo,
come espressione del tuo amore per me.
Grazie mamma
IL TUO FRANCO
Franco Cordioli
Estratta dal libro “Franco e le sue Emozioni”
Cervello giovane
L’ATTIVITÀ CEREBRALE RALLENTA LA VECCHIA
Ci sono spot pubblicitari che alludono a mezzi per migliorare i riflessi e l’attività cerebrale (senza alcun fondamento scientifico) ed articoli che sottolineano l’utilità di esercitare la mente con puzzle, enigmistica, sudoku, parole crociate, letture. Negli ultimi anni l’attività cerebrale è stata ampiamente studiata e si è giunti alla conclusione che l’invecchiamento del cervello segue quello di tutto l’organismo anche se può accadere che alcune strutture si ammalino ed altre no oppure che invecchiano precocemente: nell’organismo non esistono formule uguali per tutti. Inoltre l’invecchiamento non sempre è legato all’età anagrafica ma cambia da persona a persona: le compromissioni e le patologie senili variano a seconda di organi e tessuti. Il confine tra disfunzioni cerebrali (o di qualsiasi altro oragano) dovute all’invecchiamento naturale o fisiologico e quelle invece legate a danni o malattie è molto sottile per gli stessi studiosi con sfumature ed eventi di difficile interpretazione. Occorre ammettere che con gli anni il cervello, come ogni organo, si trasforma: il peso diminuisce di circa il 10% (circa 200 grammi) tra i 20 e i 90 anni passando da 1.400 grammi a 20 anni a 1.200 a 90 anni. Si perdono così cellule nervose o neuroni che passano da circa 14 miliardi a 10 miliardi, circa 100 mila al giorno. Anche le connessioni nervose o “rami” di contatto tra le cellule nervose (circa un milione di miliardi) diminuiscono col tempo. Per compensazione il nostro organismo prevede sistemi quali la ridondanza e la plasticità. La prima consiste in tessuti o cellule nervose presenti nel cervello in quantità ben superiore a quanto necessita per gestire la vita quotidiana. La seconda è la possibilità di attivare strutture nervose scarsamente funzionanti nel momento generando attività molto superiore ai bisogni della vita ordinaria. Secondo alcuni studi un neurone può lavorare anche 7 – 8 volte di più in situazioni particolari. Queste due riserve come potrebbero essere attivate e valorizzate al massimo fino a rallentare l’invecchiamento cerebrale? Per molto tempo è parso che il sistema migliore fosse prescrivere farmaci per migliorare la circolazione del sangue nel cervello, mentre oggi non sono quasi più consigliati visto che hanno spesso dato effetti collaterali. In realtà sembra che la formula “magica” per mantenere il cervello “giovane” rallentando l’invecchiamento sia una: non mandare mai il cervello in pensione ovvero farlo lavorare molto attivamente per far arrivare in via naturale più sangue.
(da “L’Arena di Verona” giovedì 31 gennaio 2007).
lunedì 4 febbraio 2008
Dono d'amore
Alla consueta cena di fine anno, abbiamo colto l’occasione per accoglierla festosamente, offrendole un mazzo di fiori e questa lettera ricordo.
----------
Dono d’amore
Monica
Ciò che sei riuscita a concretizzare è una lezione di cuore, un dono d’amore.
“Che aspetto ha il coraggio se non nell’arrivare all’essenza del lusso di vivere”
“Per cosa viviamo se non per renderci l’un l’altro la vita meno difficile”
Scusami se cerco di interpretare le tue certezze, i tuoi sentimenti con i quali hai avuto la forza d’animo, la risolutezza, l’ardimento per un dono così vitale.
Mi piace immaginare che al termine dell’intervento, a buon diritto, tu ti sia alzata camminando dritta piena di orgoglio.
Per avvalorare il tuo merito, tutti noi qui presenti, presuntuosamente legati per coetaneità e amicizia, ti vogliamo donare il nostro più fiero applauso.
Alfonso
Caselle, 7 dicembre 2007
domenica 3 febbraio 2008
ci sono momenti...
Ci sono momenti nella vita in cui senti talmente tanta nostalgia per qualcuno
che vorresti rubarlo dai tuoi sogni ed abbracciarlo davvero.Quando la porta della felicità sembra chiudersi, in realtà se ne apre un'altra.
Ma spesso guardiamo così a lungo alla porta chiusa che non riusciamo a vedere
quella che si è appena aperta per noi. Non cercare la bellezza, essa può svanire. Non cercare la ricchezza, essa può finire.Cerca qualcuno che ti faccia ridere, perché con un sorriso anche il giorno
più nero ti sembrerà brillante. Trova colui che sa far ridere il tuo cuore! Sogna quello che desideri sognare; Va' dove desideri andare;Sii quello che desideri essere; Perché hai una vita sola e un'unica opportunità per fare tutte le cose che desideri fare. Cerca di avere abbastanza felicità per essere dolce;Abbastanza sfide per diventare forte;Abbastanza dispiaceri per essere umano; Abbastanza speranza per essere felice. Le persone felici non hanno necessariamente il meglio di tutte le cose; cercano solo di fare al meglio le cose che la vita propone loro.Un futuro sereno si baserà sempre su un passato dimenticato; Non puoi andare avanti nella vita affinché non riesci a superare gli errori e le sofferenze.Quando sei nato, piangevi e tutti attorno erano felici e ridevano. Vivi la tua vita in modo che alla fine tu possa sorridere mentre tutti attorno ti piangeranno.